Decostruiamo il linguaggio, ricostruiamo la società
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Le parole hanno un peso.
Ogni termine che scegliamo porta con sé un significato e un immaginario, e finisce per influenzare il modo in cui percepiamo la realtà. Troppo spesso, quando parliamo di donne che attraversano un momento di difficoltà legato alla violenza, ricorriamo a un termine improprio: “vittima”.
Ma è davvero questa la parola giusta?
Perché “vittima” non basta
Definire una donna come “vittima” significa rinchiuderla in una categoria che trasmette immobilità, passività, un destino già scritto. È un’etichetta che rischia di cristallizzare la persona nella violenza subita, anziché riconoscerne la forza e le possibilità di cambiamento.
Il linguaggio non è mai neutrale: plasma la società, crea narrazioni e condiziona le prospettive. Se continuiamo a utilizzare parole che limitano, inevitabilmente limitiamo anche le possibilità di cambiamento.
Una nuova prospettiva: “in temporanea difficoltà”
Proviamo allora a cambiare lo sguardo. Non “vittime”, ma donne in temporanea difficoltà data da una situazione di violenza.
Un’espressione che riconosce la complessità del momento, ma allo stesso tempo lascia spazio alla possibilità di uscire da quella condizione. Perché la violenza non definisce chi sei: è una circostanza, non un’identità.
Il cambiamento comincia dalle parole
Se vogliamo davvero costruire una società più giusta, inclusiva e rispettosa, dobbiamo partire dal linguaggio. Le parole aprono orizzonti, creano alternative, offrono possibilità.
Smettiamo di usare etichette che chiudono e iniziamo a pronunciare parole che liberano. Da ogni situazione si può uscire. Anche dalla violenza.
E il primo passo, oggi, è scegliere le parole giuste